Eran duemila, eran giovani e forti…

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Entro il 2023 Amazon porterà a Colleferro 500 posti di lavoro. Una bella notizia per un territorio che ne ha tanto bisogno. È allo stesso tempo, per ora, una frustrazione per chi confidava nei duemila posti di lavoro (gli altri investimenti colmeranno il gap?). I posti di lavoro annunciati oggi sono come quelli della fabbrica di una volta, migliorati nell’assistenza e nella sicurezza. La retribuzione netta mensile è di 1200 euro circa: si tratta di un salario più basso di quello di un lavoratore di Minerva o di Lazio Ambiente ma sicuramente più alto del salario d’entrata di contratto del comparto commercio. Ciononostante sono una manna per un territorio in crisi.

Fatti i dovuti festeggiamenti per i 500 posti di lavoro in tre anni, è forse l’occasione per farsi qualche domanda sulle possibilità e sulle prospettive di un territorio che ha grandi pregi agroalimentari e potenzialità economiche ma che, allo stesso tempo, ha una classe dirigente che non riesce ancora a vedere un futuro che vada al di là della grande distribuzione e, attualmente, della logistica.

Lo sviluppo del terziario è sempre preponderante in un’economia avanzata ma chi lo propugna dovrebbe anche ricordare che la base di un’economia sana sta nella produzione, nella trasformazione e nella commercializzazione, non nella distribuzione. Che la produzione sia a base intellettuale, tecnologica, agricola o industriale, un territorio che produce attrae sempre risorse, invece da qualche tempo in Italia si osservano soprattutto investimenti per la distribuzione di beni prodotti altrove piuttosto che l’avvio di nuovi impianti produttivi.

È vero, ci si potrebbe consolare dicendo che “è questo che passa il mercato ed è meglio di niente”, tuttavia a forza di accontentarsi ci si potrebbe ritrovare in futuro con una distesa di ruderi, come lungo l’autostrada nel frusinate, senza posti di lavoro e un territorio martoriato da riconvertire. E allora perché non guardare il nostro territorio con gli occhi di chi lo ammira? Cioè di qualcuno che ne parla estasiato venendo dall’estero? La vera ricchezza di questa zona (dell’Italia in generale) è avere un territorio abbastanza preservato, vario e produttivo con centri storici antichi, pur stando a venti minuti di autostrada da Roma sud.

Ci si dimentica spesso che i Monti Lepini sono la catena montana tra le più vicine a Roma e tra le più alte, con picchi tra i 1368 e i 1536 metri. Ci si dimentica che vi insistono produzioni olivicole, caseifici e allevamenti di grande qualità. Ci si dimentica poi della bellezza degli scorci che offrono panorami che vanno dai preappennini al mare, con zone abbastanza isolate da vedere chiaramente il cielo stellato pur stando a due passi da Roma.

Ciò che andrebbe incoraggiato in quest’area è un’iniziativa imprenditoriale diffusa legata alla produzione primaria e ai servizi collegati. Un’economia che in altre regioni (come Marche, Toscana e Umbria) valorizza l’agroalimentare, difende il territorio, impiega forza lavoro (ad esempio in Umbria ha fatto segnare un +19,2% di incremento del numero di occupati nel 2016), genera un reddito di tutto riguardo e lascia in eredità al futuro un territorio curato e vivo.

Per citare l’ISMEA, “l’agriturismo in Italia ha registrato una crescita ininterrotta negli ultimi venti anni, raggiungendo nel 2017 i 12,7 milioni di presenze (…) il fatturato del settore, in aumento del 6,7% rispetto all’anno precedente, raggiunge la quota di 1,36 miliardi di euro e l’offerta consta di 23.406 aziende attive (+3,3% rispetto al 2016). L’agriturismo è una delle componenti principali delle attività di supporto e secondarie che nel 2017 rappresentano il 22,4% del valore della produzione agricola nazionale. A livello europeo il nostro Paese da solo detiene il 27,4% del valore delle attività secondarie complessivamente prodotto nella UE, mantenendo il primato”.

In un territorio che dal 1912 ha la cultura della fabbrica e del lavoro dipendente e che aspetta inesorabilmente l’investitore come un messia, questo cambio di mentalità è già di per sé un’innovazione difficile (anche se qualcuno la sta percorrendo lentamente). Purtroppo quelle potenzialità agroalimentari sono state danneggiate da una narrazione della Valle del Sacco come luogo “più inquinato d’Italia”. Sì, è vero, lungo il Sacco c’è l’inquinamento ma è anche vero che non si può ancora continuare a ridurre una Valle ad un fiume quando le aziende che producono eccellenze agroalimentari hanno superato l’inquinamento da un decennio. Bisogna prenderne atto e cambiare registro perché, per chi non se ne rende conto, l’area può dare un valore aggiunto alla nostra economia ben più duraturo degli insediamenti neo-industriali. E quel possibile valore aggiunto è inversamente proporzionale al consumo del territorio e alla crescita dei manufatti industriali e logistici.

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