Per chi non se n’è accorto, il coronavirus è impattato sul nostro sistema politico-istituzionale, sanitario e amministrativo come la sabbia del deserto in una macchina vecchia. Ciò che col tempo sta emergendo, compresi i molti morti, è l’inadeguatezza di una struttura colpita da decenni di lassismo, inefficienze e tagli. La “sabbia” del coronavirus ha così colpito su tre ingranaggi: il sistema sanitario, il sistema informativo, il sistema politico-istituzionale. E non sono io a dirlo. Lo dicono: la più grande e prestigiosa agenzia di stampa del mondo; i documenti del governo; i provvedimenti per la ripartenza. Andiamo con ordine.
Il dramma lombardo raccontato dall’Associated Press
Come noi, gli Stati Uniti, che pure hanno i loro problemi, si sono chiesti il motivo per cui la Lombardia ha registrato la metà dei decessi avvenuti ufficialmente in Italia tra i contagiati da coronavirus sars-cov-2. L’altro giorno sulla prima pagina della più antica, grande e prestigiosa agenzia di stampa del mondo, l’Associated Press, è apparso un reportage firmato da Nicole Winfield che ci dice cosa è successo. Se lo volete leggere è dopo il paragrafo successivo. Ne vale la pena perché è un drammatico, sintetico e indipendente racconto di inefficienze, che fa affermare ad AP che in Lombardia c’è stata una “tempesta perfetta” ma che “ci sono anche prove che le carenze demografiche e sanitarie si sono scontrate con interessi politici e commerciali per esporre i 10 milioni di persone nella regione italiana settentrionale della Lombardia a COVID-19 in modi mai visti altrove, in particolare i più vulnerabili nelle case di cura“.
In sintesi AP dice: i medici di base non erano stati preparati e sono stati infettati in tanti; gli ospedali, come i medici di base, non erano pronti e sono diventati focolai; gli industriali non erano pronti e hanno spinto per continuare a tenere aperte le fabbriche; la politica non era pronta e dopo essere andata in giro a fare aperitivi ha giocato a rimpiattino tra Regione e Governo sulla responsabilità di chi dovesse chiudere tutto prima che fosse troppo tardi; gli ultra 75enni con patologie ulteriori al coronavirus sono stati lasciati nelle case di cura; le terapie intensive si sono riempite e gli anziani da curare sono rimasti a casa con l’ossigeno domiciliare; i contagiati anziani sono stati spostati nelle RSA, contagiando gli altri; al personale sanitario non sono stati fatti i tamponi con il risultato che è stato infettato. Detto in termini più generali, è mancata la prevenzione, il monitoraggio e la sanità di base (come fa intendere oggi Giovanni Corrao su ilsussidiario.net). Si aggiunga che, è notizia di pochi giorni fa, in Lombardia si sono stimati 1200 casi di covid-19 a partire da gennaio, prima del paziente 1 rilevato il 21 febbraio. Così il focolaio lombardo, a dispetto della massima “prevenire è meglio che curare”, è diventato il focolaio d’Italia.
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Il sistema informativo alla base delle valutazioni
Gli attuali criteri per passare dal lockdown alla fase 2 A e poi alla fase 2 B mettono in luce un’altra carenza. Stavolta del sistema informativo sanitario. Se si vanno a leggere con attenzione, quei criteri contenuti nell’allegato 10 dell’ultimo DPCM mettono in luce le carenze di un sistema informativo adeguato che consenta di analizzare e monitorare l’andamento della situazione. Nello specifico, per passare dal lockdown alla Fase 2, cinque indicatori su nove si riferiscono alla qualità del sistema informativo sanitario: misurano cioè la precisione delle informazioni immesse nel sistema (sotto potete leggere la descrizione degli indicatori). Ad esempio, in percentuale sul totale va verificata: la presenza della data di inizio sintomi nella cartella, la storia di ricovero in ospedale e la data di ricovero, la storia di trasferimento e la data di ricovero in terapia intensiva e il numero di casi in cui è riportato il comune di domicilio o residenza. Per passare dalla Fase 2 A alla 2 B è necessario conseguire la capacità di monitoraggio epidemiologico: ancora una volta un problema informativo.
Se i criteri sono questi, è evidente che il lockdown è stato determinato anche da una diffusa impreparazione del sistema informativo pubblico nell’acquisire prontamente, elaborare e sintetizzare le informazioni provenienti dalla “periferia” del sistema sanitario. E non è un caso che nelle elaborazioni dell’ISS emerge una distanza di 10 giorni tra l’insorgenza dei sintomi covid-19 e la data di diagnosi. Per fare un paragone con un’azienda, è come se l’impresa non registrasse puntualmente le fatture di acquisto e di vendita rispetto all’emissione e alla scadenza: ad un certo punto si troverebbe probabilmente senza liquidità per far fronte ai pagamenti e sarebbe costretta alla liquidazione (lockdown) o al fallimento.
La distanza delle élites
Il terzo sistema che non è stato pronto ad affrontare lo shock è stato quello politico-istituzionale. Non è un caso che una tradizione millenaria di forza del diritto sia oggi completamente saltata in favore del diritto della forza (seppure istituzional-governativa), favorita da un Parlamento debole che ha dovuto attendere che Sabino Cassese scuotesse le coscienze dei politici. E ciò malgrado si legga che le prospettive su come sarebbe andata erano state elaborate dal Ministero della Salute già dal 20 gennaio scorso. Oggi ci troviamo a guardare il sito del governo che interpreta a sua volta gli atti che emana e andiamo verso l’anarchia delle ordinanze. Ma c’è di più: le nostre élites se qualcosa hanno dimostrato fino ad oggi con i provvedimenti economici è quanto sono lontane dalla realtà.
Si stanno dando soldi a pioggia (a chi li riceve) che però possono essere spesi solo nei supermercati e per pagare i mutui, le bollette e le tasse. Tutti i bar, ristoranti, pizzerie, estetisti, barbieri e negozi in generale continuano invece a dover pagare affitti (per loro c’è il credito d’imposta ma non la liquidità per pagarli), bollette, Tari e tasse, tanto che barbieri e parrucchieri hanno fatto ricorso al Tar del Lazio contro l’ultimo DPCM per tutelarsi dal dissesto. Il fallimento di questo tessuto produttivo rischia di abbattersi da una parte sulle famiglie proprietarie dei locali affittati e dall’altra sullo stesso Stato e sui Comuni che non incasseranno il dovuto da tasse, Iva e Tari.
C’è un ultimo paradosso: lo ha rivelato l’associazione dei Consulenti del Lavoro e presagisce l’inadeguatezza della progettazione della fase 2 (sotto potete leggere l’analisi). Non considerando le differenze tra regione e regione, la Fase 2 riporterà indistintamente a lavoro 4,4 milioni di persone: soprattutto over 50, soprattutto uomini e soprattutto nelle aree più colpite dal virus, cioè Lombardia, Marche, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. Gli autonomi e le altre attività, anche quelle nelle regioni quasi indenni, dovranno ancora attendere.