All’incondizionata condanna per un omicidio vergognoso e all’auspicio che giustizia sia fatta, non può che aggiungersi l’assoluta vicinanza a quella famiglia che domani darà l’ultimo saluto a Willy e l’invito a partecipare alla raccolta fondi in suo favore (qui i dati), pur sapendo che nessuna donazione ricompenserà la perdita di un figlio. Ma va anche aggiunto che ai fatti gravi e tragici che hanno distrutto una famiglia e colpito l’opinione pubblica in questi giorni, si sono affiancate banalità, autocommiserazione e una narrazione scandalosa e indegna.
A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci. Il problema che dobbiamo tutti insieme affrontare e risolvere è quello di fare giustizia nei confronti di chi ha commesso fatti gravissimi e allo stesso tempo di non continuare a recar danno all’immagine di un intero territorio. Lo dico, citando un passato Capo dello Stato, perché quanto accaduto fino ad ora ha raggiunto il parossismo, andando oltre i limiti del ragionevole. Di chi è la colpa? È di tanta superficialità e faciloneria nell’interpretare e raccontare i fatti. Di tanta inconscia volontà di autocommiserazione.
Ho letto in questi giorni una narrazione scandalosa, ideologica e superficiale di fatti gravissimi che solo chi è del territorio ha saputo e voluto interpretare correttamente. Se gli avvenimenti sono stati subito chiari sui giornali della zona, altri grandi media hanno dato sfogo alla ricerca del dettaglio ante-processo e alle loro esigenze editoriali, comunicando prima una forzata interpretazioni del delitto a sfondo razziale, poi ricercando spasmodicamente di darvi un qualche colore politico (avverso al loro) per parlare ancora una volta, stucchevolmente, di fascismo. Non avendolo trovato, si è andati a scavare nell’attività e nei curricula degli affini degli arrestati per poi montare un caso ridicolo sullo “sport che uccide”, sulle “palestre del male”.
Gli avvenimenti sono già gravi così come sono e questa narrazione indegna circola ancora malgrado sia stata smentita dai fatti, dalle istituzioni e dalle persone. E prende forza anche dalle banalità propagate da fonti più o meno autorevoli. Delitti gravi sono avvenuti in passato in diverse città della zona ma questa è la prima volta che ad essere arrestati sono dei ragazzi di questo territorio. L’esistenza del male può essere difficile da accettare ed è necessario fermarsi e riflettervi sopra e impegnarsi di più per migliorare ma la soluzione giusta non è quella di sentenziare la corresponsabilità di una comunità o di un intero territorio secondo il banale leitmotiv del “tutti sapevano e non hanno fatto niente quindi tutti sono colpevoli”. Dichiararsi tutti correi è il primo passo per fare penitenza e poi assolvere tutti, anche chi correo lo è davvero. Ebbene non ci sto a fare di tutta l’erba un fascio e a dare carburante a quella narrazione che da qui a poco potrebbe passare dalla “tradizione violenta” degli artenesi (lo ha detto un parroco di zona) alla riesumazione degli scritti del Sighele e del Lombroso.
Invece di autocommiserarsi, dando l’immagine di un paese di delinquenti, si faccia un atto di coraggio e si spinga ad agire chi “sapeva” e chi è deputato a prevenire. Coloro che dicono che “tutti sapevano” (e che quindi includono anche se stessi) dicano chiaramente cosa sapevano e spieghino a chiare lettere cosa potevano fare e non hanno fatto. Chi afferma che in quei luoghi colleferrini c’era una rissa a settimana, ci dica perché in tre mesi ne è stata segnalata una (o due) in tutto alle autorità. Non ci hanno pensato? Non volevano noie? Hanno avuto paura della chiusura di qualche attività? Lo facciano ora, vadano dalle autorità e raccontino circostanziatamente quello che sanno: sono ancora in tempo e tutti noi saremo loro grati. Ma ci si risparmi la retorica del “siamo tutti corresponsabili”, perché i “corresponsabili” sono coloro che hanno avuto a che fare con certe persone, con certi ambienti e con certe dinamiche, potendo così davvero sapere qualcosa, e, avendo gli elementi, la conoscenza dei fatti e il potere di intervenire non lo hanno fatto. Quanti saranno? Un centinaio in dieci comuni?
Se per soli dieci giusti il vendicativo Yahweh avrebbe salvato Sodoma e Gomorra, chi siamo noi per accomunare il giusto con l’empio e far passare una città e un intero territorio di lavoratori e di gente onesta per un luogo più gretto, più violento e più mafioso di molti altri? Chi siamo per affibbiare un marchio ingiurioso sulla carta d’identità di semplici cittadini che si alzano tutti i giorni per andare onestamente a lavorare e che poi si devono sentire in obbligo di vergognarsi davanti ai colleghi di lavoro e amici? Come loro, io non mi sento corresponsabile: mi sento parte lesa in una narrazione indegna di un barbaro omicidio. Vorrei che le istituzioni facessero il lavoro per cui esistono, accertando i fatti e condannando celermente e senza errori coloro che hanno compiuto quell’efferato delitto. Vorrei che chi è deputato a farlo (per lavoro o per scelta) facesse una più intensa opera di prevenzione e di promozione di una comunità giusta. Vorrei che al male della banalità si sostituisse il bene della responsabilità secondo i ruoli. È questo quel che dobbiamo a tutti noi, alla memoria di Willy e ai suoi genitori.
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