Un aiuto in Italia, no?

Mandalo ai tuoi amici


Segui La Nuova Tribuna su Telegram (clicca qui e iscriviti al canale) o su WhatsApp (clicca qui e registrati)


 

Tutti noi di sicuro facciamo il tifo per la giovane volontaria Silvia rapita in Kenia. Ma non si può sottovalutare che la sua vicenda, come tante altre di nostri volontari nei Paesi del Terzo Mondo, debba far riflettere. E non poco. Fare il volontario in zone del Mondo ad alto rischio mette in pericolo non solo chi esercita il volontariato ma, purtroppo, il Paese da cui il volontario proviene, la comunità in cui è inserito, coloro che dovranno adoperarsi perché la vicenda vada a buon fine, a volte “costi quel che costi”.

La domanda che mi sono posto più volte, ma penso anche molti di voi lettori, è: vale la pena correre tali rischi per sé e per gli altri, vale la pena portare la solidarietà oltre i confini, è giusto che essa debba andare oltre i limiti e i rischi consentiti? Soprattutto quando la solidarietà è portata in zone dove non esistono protezioni e contromisure che dovrebbero essere certe e che invece, pressoché assenti come nel caso di Silvia, le organizzazioni non governative non mettono in atto con costi a volte umani ed economici molto alti, troppo alti.

E parliamo a questo punto – poiché il costo di vite umane è comunque inaccettabile – proprio del riscatto, che quasi sempre – a meno che non sia un sequestro a scopo politico-militare– è richiesto per la liberazione del volontario rapito. Il costo in denaro viene sostenuto dal Paese di provenienza del rapito ed è a carico della comunità di appartenenza.

Uno:  succede che il denaro del riscatto pagato dal Paese sia superiore al costo di una vita di attività lavorativa di un qualsiasi manager o lavoratore. Due: che l’azienda paese, venendo meno a una “etica pubblica” che è un principio fondante di uno Stato, è costretta a cedere al ricatto di criminali o di terroristi attraverso una trattativa immorale e vietata per legge. Perché dico questo? Perché penso a quei poveracci dei rapiti per estorsione in Patria, per i quali lo Stato, ligio alle leggi vigenti, sequestra i beni di famiglia e rende praticamente irrealizzabile il riscatto e quindi il suo rilascio.

Tre: il sacrificio di vite umane che di sovente precede la liberazione del rapito. Quattro: i soldi del riscatto come saranno impiegati dai rapitori? Quante saranno le vittime dirette e indirette del ricavato ottenuto? La domanda che mi assilla è anche questa: i volontari, le ong, le associazioni che favoriscono queste operazioni di volontariato si pongono mai queste problematiche?

Certo, i loro principi sono nobili e sono senz’altro da rispettare. Ma non dimentichiamo che questi principi non devono essere al di sopra di una “immunità morale e giuridica”. Se la vicenda-aiuto al prossimo ha una brutta piega (come è successo a Silvia) i danni che si arrecano sono ben superiori al bene che la propria azione voleva portare. E allora? Portate aiuto a chi ne ha bisogno, anche e soprattutto in Italia e questo resta sempre il miglior contributo e aiuto al prossimo che ne ha bisogno.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

WhatsApp Contatta La Tribuna